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Tabasciajà

Tabasciajà

(racconto villapianese, in omaggio a Giuseppe Lippolis che me l'ha raccontato)

Sarà successo in un pomeriggio di febbraio considerato dai contadini il mese “curtu e amère”, per gli improvvisi freddi che giungono e seccano tutto; ma ha anche una propria dolcezza, non solo per quei tiepidi momenti in cui l’aria quasi ha l'avvisaglia di primavera e trema il mandorlo di piacere a germogliare, quasi con stupore. Ma anche perché i cani, chissà perché, vanno in calore proprio in questo periodo ed è allora un correre, un ululare di essi per le strade del paese e tu senti oltre il respiro persino quell’odore delle cagne che fa impazzire i maschi.

Il Comune pensava di poter risolvere il problema, nominando degli accalappiacani; invano, bastava che ne arrivassero due o tre dalla campagna, specie quei maremmani che a volte riuscivano, chiamati dall’istinto, a fuggire dai recinti delle pecore che proteggevano al pascolo, che era un fuggi fuggi generale per le vie del paese da parte degli abitanti, tanti erano feroci e pericolosi i cani, grossi come piccoli vitelli e con quei collari chiodati al collo, irti e appuntiti che servivano a difenderli dai lupi. Stranamente, quel giorno alle 15, la piazza era vuota, da poco era passato il pullman che da Plataci scende alla Marina di Villapiana e ancora i bar erano chiusi, riaprendo essi di solito verso le 16, quando la gente scappa dal lavoro e i contadini arrivano dalla campagna con gli asini carichi e li si porta ad abbeverare alla fontana posta al centro della piazza. Egli, Tabasciajà, era coricato sul muretto dell’abitazione del dottor Sisci, quasi dormiva, in quel suo mantello da pastore: usciva fuori solo il viso, una pelle dura come la carta vetrata, resa così dalle malattie dell’Abissinia dove per anni era stato sotto le armi, durante il ventennio fascista e a guerra finita si diceva esserci rimasto, preso da quelle cosce frementi delle Abissine, da cui aveva avuto, si diceva, anche dei figli, disinteressandosi così per molto tempo della famiglia che aveva a Villapiana, che lo considerava morto, visto che per molto tempo non aveva dato notizie di sé. Per cui, quando tornò, la moglie non l’accettò e gli disse irata, mandandolo a dormire in una casupola, prima adibita a canile “dove hai fatti lluve, vai a ffè pure i cachinazzi”. Si arrangiava per vivere facendo qualche giornata e contando sul buon cuore della gente del vicinato che ogni tanto gli portava un piatto di minestra calda “pa more i Gisù Cristu”.

Parlava poco e con frasi smozzate, quasi monosillabi, miste tra dialetto e espressioni arabe, almeno nella cadenza cantilenante. Aveva acquistato un suo prestigio, quasi un rispetto, quando, in una manifestazione di un sabato di regime, al grido del segretario del fascio a cui si doveva rispondere nella stessa maniera “Alalala” per osannare il duce, egli, forse, svagato in testa o per qualche bicchiere di vino, aveva gridato “Alla larga” ed era stato messo in prigione per qualche giorno, come se avesse offeso Mussolini, diventando, suo malgrado, un analfabeta e uno straccione, l’espressione più alta dell’antifascismo in tutto l’alto jonio cosentino. Ma la sua vera gloria, quella che ne aveva fatto un personaggio, quasi un mito, spesso imitato da tutti, ma con esiti disastrosi, come proprio quella mattina, ultimo da Francesco, capelli lunghi e barba fluente da profeta, qualche espressione della bibbia imparata a memoria, per darsi un’aria, che mandava in bestia il prete del luogo, era un’altra: mangiare vetro, ferro filato, per scommessa, o qualche dieci lire o una bevuta gratis, diventando alla fine, come tutti i poveri cristi che vivono di espedienti per campare, un fenomeno da baraccone, con cui trastullarsi. Se gli offrivi un bicchiere di cognac nel bar, egli riusciva, dopo aver bevuto, a triturare in finissime parti il vetro e a mangiarlo, senza tagliarsi la lingua e senza avere altri problemi: diversamente da Francesco, come si diceva, che quella mattina, nel bar del Barone, volendo fare lo spaccone e invocando il suo Dio, appena cominciò a triturare il vetro s’insanguinò tutto e venne portato d’urgenza in ospedale, più morto che vivo.

I cani, dunque. Come animati e spinti da una forza innominabile, essi, si radunarono in Piazza Dante: erano una trentina, di ogni taglia e provenienti da ogni parte del paese e dai dintorni; ad un cenno convenuto tra di loro si diressero muti verso la panchina dove dormicchiava Tabasciajà. Qualcuno in quel momento, Vicinzi il muto, passò e vedendo quello che stava per accadere, cominciò a gridare, richiamando l’attenzione di chi abitava nelle vicinanze della piazza, con gesti, suoni gutturali, a tirare pietre alle porte e con la sua tipica espressione, con una risata ampia e acuta “alloallove”. Addirittura, arrivò trafilato in chiesa, che dista poco dalla Piazza, e scrivendo su un foglio datogli dal prete che non riusciva a capire che volesse, tanto era spiritato e impaurito, “pericolo”, fece in modo che venissero suonate a morto le campane e la gente, allarmata, si riversò tutta in Piazza Dante, in poco tempo. Era una scena terribile: i cani si erano messi a cerchio dove Tabasciajà era ancora sdraiato, come se non si fosse ancora accorto di nulla, i cani, infastiditi, da quelle presenze in Piazza e dal rumore delle campane, cominciavano ad innervosirsi e da un momento all’altro lo avrebbero sbranato, senza che si potesse agire in tempo. Fu un attimo; nessuno capì o poté intuire se stava per vivere, inorridito, la fine miserrima dell’uomo o che qualcosa di misterioso e strano sarebbe successo e si sarebbe salvato. 

Restò solo un attimo di paura e di stupore, allora e per sempre sia in chi aveva assistito alla scena sia a chi venne dopo ripetuta, con ricchezza di particolari. Sul muretto, non più sdraiato, ma seduto Tabasciajà, il capo a testa in giù, verso le ginocchia, le braccia sulle gambe leggermente divaricate, mormorò prima ai cani che avevano cominciato ad abbaiare “pristu fo“, e poi, alzandosi improvviso, di scatto, con occhi spiritati che restarono impressi nei presenti e finanche nelle pietre e nei muri della Piazza, gridò, con voce vibrata e cavernicola ”SCIARA CARMAAA WAAARARATAOOO”. E i cani, ammutoliti, la coda abbassata tra le gambe, si diressero alla spicciolata, disciplinati, a piccoli gruppi, verso i luoghi da cui erano giunti.




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